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L' arte: rivista di storia dell'arte medievale e moderna — 17.1914

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Fasc. 5-6
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Maione, Italo: Fra Giovanni Dominici e Beato Angelico, [2]
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https://doi.org/10.11588/diglit.24141#0395

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FRA GIOVANNI DOMINICI E BEATO ANGELICO

(Continuazione e fine, vedi fascicolo precedente)

1 'amore per il Crocefisso, che era il cardine della religiosità del Dominici, amore ereditato
da Santa Caterina da Siena, e che i domenicani ritenevano come il primo insegnamento
del novizio, ha fatto chiamare il Beato del Mngello «il più francescano dei domenicani»,
quasi a dargli il titolo che i contemporanei avevano dato al Dominici. Ed è giusto darlo al
pittore, comeȏ giusto serbarlo al maestro che glielo ha fatto meritare.

Dal Crocefisso con a piedi il domenicano in ginocchio e assorto nella contemplazions,
alla grande crocefissione del Capitolo, è la rappresentazione d’un dolore calmo, ma pos-
sente, che balza all’occhio del visitatore, per incantarlo e scuoterlo in ogni fibra più pro-
fonda; la Crocefissione di San Marco è uno dei monumenti più grandi, che mai abbia dato
l’arte italiana.

Già fin dallo scorcio del secolo XIIT, la nostra arte, con Cimabue e Pietro Cavallini, di-
menticando il Cristo Romanico, aveva creato il dramma del Golgota. Giotto, con la sua anima
potente d’artista, aveva dato la più forte visione della pietà umana nella Cappella degli Scro-
vegni. Sul volto del Cristo che pende dalla croce, egli aveva impresso il segno d’un dolore
che ha potenza sovrumana, il suggello di un’anima che palpita nello spasimo. La testa di
Gesù che cade sul petto; i lineamenti del volto sfigurati dalle sofferenze, gli occhi velati da
un tenue velo, le labbra inerte son là a significare l’uomo che vien meno; i capelli, sconvolti,
disordinati, come segno di strapazzo, lasciano intravedere la mano di chi li turbò; le membra
rattrappite, stecchite, sono segno della stanchezza e della sfinitezza dell’agonizzante. La madre
sviene tra le braccia delle pie donne ; Maddalena, in ginocchio presso la croce, si strugge dal
dolore, e, sciolti i capelli, carezza le estremità dell’agonizzante. D’altra parte il Centurione
proclama alla folla la divinità di Cristo. La natura è commossa, sconvolta, turbata del dolore
che la vela, e par che voglia far eco alle grida dei dolenti. Gli angeli volano a stormi, come
atterriti, come invasi da uno spasimo irresistibile; e chi si strappa le vesti, chi raccoglie il
sangue di Cristo, chi piomba giù con urli e pianti. E un dolore sovrumano che si sprigiona da
questo affresco (fig. 5)'

1 trecentisti giotteschi affollarono il Golgota e diedero una folla tumultuosa, quasi a rap-
presentare il contrasto fra il dolore della vergine e l’ingiuria dei farisei. E ora si guardi
l’Angelico.

Dov’è più il dolore spasmodico che erompe da ogni parte come in Giotto? Dov’è più la
folla, il Centurione, i farisei, quell’orda che dà una teatralità, che distrae l’anima e la mente
nell’opera di Simone Martini, di Ambrogio Lorenzetti, di Andrea di Firenze nel Cappellone
degli Spagnuoli? Tutto è cambiato. Al dolore della madre è posta accanto la contemplazione
del santo che, attraverso il dolore calmo ed intimo, si strugge e si eleva. Alla folla dei miscre-
denti è subentrato il coro dei Martiri, dei Padri della Chiesa, che par si macerino nell’animo,
estatici con quello sguardo che si perde nell’infinito; dall’insieme par si levi un coro basso,

L'Arte. XVII, 46.
 
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