246 LIBRO IV - LA TEORIA DELL'ARTE NELLA PRIMA METÀ DEL SECOLO XVI
contro il libriceino del Pino uscito poco prima, e che non viene no-
minato. Infine viene chiamato nella disputa (alla quale più tardi
prenderanno parte anche le personificazioni della natura e dell'arte)
un terzo come arbitro, Baccio Bandinelli, pure toscano, nota perso-
nalità di quei giorni, a cui vengono rivolti smisurati elogi. Egli ri-
solve la questione a favore del suo concittadino e compagno d'arte,
Silvio, e della scultura, il che pure è degno di nota. Dato il tempe-
ramento di quest'autore si capisce come non manchino storielle cu-
riose e spiritose ; l'asserzione maliziosa di Michelangelo sui letterati
dell'arte, che la sua « fante » sarebbe capace di far altrettanto, non
preoccupa il Doni. Che egli praticamente non abbia nessuna cogni-
zione dell'arte figurativa lo confessa con nobile franchezza in una let-
tera (stampata in appendice) al pittore Paris Bordone; ma che egli,
il primo bibliografo italiano colla sua Libraria, affermi arditamente
che prima di lui nessuno abbia mai scritto su la scultura, è un po'
gl'ave; non conosceva dunque il libro del Gamico, uscito nella sua
stessa città una generazione prima. È vero però che, come abbiamo
veduto, nella sua città natia trovò ben pochi editori e lettori, vice-
versa ne trovò di più oltr'Alpi. È importante però che continui l'ap-
prezzamento delle qualità tecniche, in ispecie quelle dei Fiamminghi;
viene detto che essi abbiano, più che gli Italiani, « il cervello nelle
mani » ; anche con ciò, del resto, plagia una frase di Michelangelo.
Soprattutto viene rilevata la loro naturalezza nel trattare i soggetti.
Degna di nota è pure la descrizione della personificazione della scul-
tura, che entra nel dialogo: una donna seduta, vestita dignitosa-
mente, perduta in solitarie meditazioni fra i suoi ordigni artigiani
e circondata da vari strumenti artificiosi. Essa si ricollega chiara-
mente alla famosa incisione del Dùrer, — la Melanconia, — di cui
usufruirà più tardi anche Domenico Feti (in un quadro al Louvre).
Infatti il Doni in una lettera (pure stampata in fine) diretta all'in-
cisore Enea Vico, ove egli descrive la sua collezione di incisioni in
rame, dice di possederne un esemplare. Non prive d'importanza sono
pure le asserzioni sulla tecnica dell'avorio nel quarto dialogo, ove si
loda la bellezza del materiale che si avvicina molto alla carne viva,
e viene in mente l'importanza assunta da questo ramo artistico di
origine nordica, anche in tempi posteriori, e anche nel Veneto. In
questo cervello balzano, che ha buttato la tonaca alle ortiche, ci stu-
pisce un demonismo tutto medievale che ogni tanto viene in luce;
cosi esce a dire a Silvio, dell'Aurora di Michelangelo, che essa non
ba il diavolo in corpo come gl'idoli antichi.
La figura del vecchio Michelangelo sta al centro di tutta l'opera,
contro il libriceino del Pino uscito poco prima, e che non viene no-
minato. Infine viene chiamato nella disputa (alla quale più tardi
prenderanno parte anche le personificazioni della natura e dell'arte)
un terzo come arbitro, Baccio Bandinelli, pure toscano, nota perso-
nalità di quei giorni, a cui vengono rivolti smisurati elogi. Egli ri-
solve la questione a favore del suo concittadino e compagno d'arte,
Silvio, e della scultura, il che pure è degno di nota. Dato il tempe-
ramento di quest'autore si capisce come non manchino storielle cu-
riose e spiritose ; l'asserzione maliziosa di Michelangelo sui letterati
dell'arte, che la sua « fante » sarebbe capace di far altrettanto, non
preoccupa il Doni. Che egli praticamente non abbia nessuna cogni-
zione dell'arte figurativa lo confessa con nobile franchezza in una let-
tera (stampata in appendice) al pittore Paris Bordone; ma che egli,
il primo bibliografo italiano colla sua Libraria, affermi arditamente
che prima di lui nessuno abbia mai scritto su la scultura, è un po'
gl'ave; non conosceva dunque il libro del Gamico, uscito nella sua
stessa città una generazione prima. È vero però che, come abbiamo
veduto, nella sua città natia trovò ben pochi editori e lettori, vice-
versa ne trovò di più oltr'Alpi. È importante però che continui l'ap-
prezzamento delle qualità tecniche, in ispecie quelle dei Fiamminghi;
viene detto che essi abbiano, più che gli Italiani, « il cervello nelle
mani » ; anche con ciò, del resto, plagia una frase di Michelangelo.
Soprattutto viene rilevata la loro naturalezza nel trattare i soggetti.
Degna di nota è pure la descrizione della personificazione della scul-
tura, che entra nel dialogo: una donna seduta, vestita dignitosa-
mente, perduta in solitarie meditazioni fra i suoi ordigni artigiani
e circondata da vari strumenti artificiosi. Essa si ricollega chiara-
mente alla famosa incisione del Dùrer, — la Melanconia, — di cui
usufruirà più tardi anche Domenico Feti (in un quadro al Louvre).
Infatti il Doni in una lettera (pure stampata in fine) diretta all'in-
cisore Enea Vico, ove egli descrive la sua collezione di incisioni in
rame, dice di possederne un esemplare. Non prive d'importanza sono
pure le asserzioni sulla tecnica dell'avorio nel quarto dialogo, ove si
loda la bellezza del materiale che si avvicina molto alla carne viva,
e viene in mente l'importanza assunta da questo ramo artistico di
origine nordica, anche in tempi posteriori, e anche nel Veneto. In
questo cervello balzano, che ha buttato la tonaca alle ortiche, ci stu-
pisce un demonismo tutto medievale che ogni tanto viene in luce;
cosi esce a dire a Silvio, dell'Aurora di Michelangelo, che essa non
ba il diavolo in corpo come gl'idoli antichi.
La figura del vecchio Michelangelo sta al centro di tutta l'opera,