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L' arte: rivista di storia dell'arte medievale e moderna — 29.1926

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Nicodemi, Giorgio: Recensioni per un libro sul Romanino
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RECENSIONI

PER UN LIBRO
Brescia, 18 agosto 1926.
Illustre Signor Direttore,
non ostante il nuovo giudizio « compiutamente sfavore-
vole » che il Suo collaboratore Roberto Longhi ha voluto
dare di un mio studio su Gerolamo Romanino, e soltanto
perchè il giudizio è giustificato con la necessità di « impedire
il solitamente fulmineo diffondersi epidemico dell’errore »,
mi rivolgo alla Sua cortesia ed alla Sua equità perchè vo-
glia consentirmi di riaffermare qualche punto del mio lavoro
di cui meglio sento la limpida certezza.
Non mi richiamerò, quindi, ai due giudizii similmente
sfavorevoli dati dal Longhi su due miei altri lavori, ed ai
quali non risposi, non soltanto perchè li ritenni tali da non
richiedere una qualsiasi risposta, ma anche perchè allora
avevo qualche cosa di meglio da fare del contendere a parole.
Nè penso certo di imitare un’asprezza di cui mi è impossibile
trovare una qualsiasi sensata ragione. So benissimo di esser
incorso in errori, che io stesso spero di poter correggere,
non pensando affatto di abbandonare le mie ricerche sui
pittori bresciani, anche se la mia «insistente» opera di stu-
dioso possa essere del tutto inutile. So pure che gli errori
di uno studio, che non ha la pretesa di essere definitivo, com-
piuto con scarsissimi agi, con un’errata di una lunga pagina,
non sono affatto quelli che il I.onghi indica come sostan-
ziali. Se ho detto qualche cosa che fin qui non era uscita
dal campo delle ricerche locali, se ho coscenziosamente
osservato gli elementi di cui potevo disporre, se ho forse
reso plausibili indicazioni di altri, e sciolto qualche dubbio
(qualcuno anzi dello stesso Longhi), non io posso dirlo.
Debbo solo profondamente dubitare dell’efficacia di quanto
scrissi, vedendo come facilmente le asserzioni che più pare-
vano chiare alla mia umile esperienza di studioso, hanno
potuto dar luogo a pure e semplici contraddizioni. Rinun-
cio naturalmente a rispondere a questa parte di osserva-
zioni. Inoltre non discuto, o non ripresento punti che il
Longhi priva di ogni possibile interesse. Così, se ho esposto
gli antecedenti bresciani del Romanino, e se ho detto dei
pittori contemporanei alla sua giovinezza e alla sua ma-
turità, come potevo tralasciare di definire l’ambiente nel
quale il Romanino portò gli spiriti veneziani giorgioneschi
che, per quanto sappiamo; non avevano ancora preoccupato
gli artisti bresciani fermi ancora a dati del Carpaccio, o
quasi del tutto lombardi? Che questo non fosse inutile mi
sembra possa appunto essere provato anche dal fatto che
dicendo di Paolo da Caylina è stato chiarito a punto un tenue
dubbio del Longhi, il quale, nelle sue « Cose bresciane del

SUL ROMANINO
Cinquecento », pubblicate in questa stessa rivista nel 1917,
fase. 2e3, pag. 105, in nota, scrisse che all’ultimo tempo
del Ferramela « devono appartenere la Pala di S. Maria
delle Grazie — la cui attribuzione è più controversa di quanto
di solito si creda — e gli affreschi di Edolo e di Mu ». Per-
chè, riportando a Paolo da Caylina la pala, e restituen-
dole la sua vera data, tra il 1541 e il 1543, circa dodici anni
dopo che il Ferramola era morto il 3 di luglio del 1528, non
solo si toglie ragione ad ogni equivoco, ma si identifica anche
una corrente ritardataria, che spiega un singolare persi-
stere di forme foppesche, impoverite e modificate con i più
varii contatti.
Similmente, signor Direttore, mi riesce del tutto impos-
sibile di accennare ai due frammenti d’affresco padovani
che figurarono nella scuola dei SS. Marco e Sebastiano, e di
notarne l’eco fedele in opere bresciane affrescate, e in mi-
niature di artisti bresciani che lavorarono certamente tra
il 1470 e il 1495. Diventati questi «secondarissimi», rite-
nute « debolissime » le gentildonne di Palazzo Martinengo,
« goffi » gli affreschi di Malpaga (ed Ella stesso, signor Di-
rettore, ebbe a ricordare le due prime opere nella sua Storia
dell’arte italiana, ed ebbe ad ammirare le due altre con un
bellissimo entusiasmo, che non credo facilmente dimen-
ticabile, nè da me, nè da quanti l’hanno potuto osservare),
viene ad essere tanto profondamente negato ogni interesse
di ricerca e di precisione d’indagine che l’insistere diventa
un puro perditempo. E sì che gli affreschi di palazzo Marti-
nengo sono per me, sebbene tanto avanzati, a punto una
prova per dimostrare i contatti tra il Savoldo e il Moretto.
Negata l’efficacia del Savoldo, che è, per alcuni rispetti,
quasi casuale nel Romanino, tanto è vero che se ne ha
traccia convincente nel solo S. Matteo, e che è più intensa
nel Moretto, il quale giunge, nella Cena della Pinacoteca
Tosio e Martinengo, a riprodurne tipi e atteggiamenti, come
resta impoverita di esperienze tutta la scuola bresciana!
Ora è certo che la datazione di opere savoldiane non possa
avvenire prescindendo dall’efficacia che esse poterono eser-
citare. Per esempio, io credo benissimo che per il S. Paolo
della collezione Gussalli di Milano, pubblicato dal Longhi,
possano valere le date estreme 1527 e 1535; ma so-
pratutto perchè il Moretto elabora le forme del S. Paolo
nella figura di uno dei discepoli della Cena di Emaus,
che è sicuramente databile dopo il quadro con Santa
Margherita da Cortona ed i Santi Girolamo e Francesco,
con la data MDXXX, e che ha chiarissimi segni di efficacie
savoldiane.
 
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