apoli nobilissima
RIVISTA DI TOPOGRAFIA ED ARTE NAPOLETANA
Vol. X. Fasc. XII.
DOGNANNA „ FUIT!
Dono, in verità, molto meravigliato del profondo si-
lenzio in cui si son chiusi decorosamente, di fronte alla
sconcia offesa che si è fatta e si va facendo al palazzo
« Dognanna », i componenti della nostra Commissione
edilizia, la Commissione pe' monumenti, gli architetti napo-
litani, il Circolo artistico e quel tal Comitato per l'arte
pubblica al quale tempo fa battemmo grancassa ogni giorno
e di cui magnificammo insistentemente le mirabili vedute.
Diavolo! Al cospetto dello sfregio — vera tagliata di fac-
cia — ch'è toccato a un de' più antichi, dei più pittore-
schi, dei più vantati monumenti napoletani, si fosse fatto
vivo un solo di coloro nei quali si deve pur credere che
sopravvivano concetti d'arte e amore pel bello! Ma, signori
miei, non vedete dunque che il palazzo « Dognanna » è
per scomparire come in un finale d'una rivista scarpettiana?
La fata Biribis leva la bacchetta magica, l'orchestra esegue
una sinfonietta, don Felice torce la bocca e chiude un oc-
chio, e... uno, due, tre... ecco al posto del palazzo « Do-
gnanna » qualcosa come il Mulino di Cicerenella.
Povero « Dognanna! ». L'ultimo nobile peana è stato
sciolto in suo onore dall'amico Armando Pappalardo. Sfogo
d'un'anima che fin qua s'è tenuta lontana dalle cose di
storia patria e che alla fine, ha avuto un impeto resipiscente,
pensavo, scorrendo l'elegante piccola monografia per ove
l'autor dello spiritismo teneva pur dietro, agilmente, alle
ombre di Dragonetto Bonifacio e della signora duchessa
di Medina las Torres. Macché! L'opuscolo era una lapide.
Il mio amico era stato invitato a intesser nient'altro che
un elogio funebre. Il palazzo « Dognanna » era stato ven-
duto a un privato, a un francese, il signor Genevois.
Ebbene, ve lo confesso, a sentir questo, lì per lì, mi
son consolato. Dico: È un francese? Meno male. Cono-
scerà certamente le contumelie che nelle parecchie guide
galliche ci sciorinano sul muso i suoi connazionali, a pro-
posito del poco rispetto in cui s'ha l'abito, presso noialtri,
di tenere i monumenti patrii. Saprà bene — cela va sans
dire — che la fabbrica del palazzo « Dognanna » è di Cosimo
Fansago, e che fu delle costui magnifiche architettazioni
una delle più vantate. Non ignorerà — soccorrendolo in
questo l'ultimo cronistorico — tutto quanto nel seicento
medesimo e nel settecento e ancor nel nostro secolo, è
stato scritto in lode del quasi fantasioso edificio che
tanto nobile e famuso,
Rre de li spasse e de li contentezze,
ave no pede asciutto e n'autro nfuso,
e ttene la Serena pe li ttrezze...
come, a' suoi be' tempi, scriveva Giulio Cesare Cortese.
Che più? Gusto, amore dell'arte, cortesia pel luogo ospi-
tale, rispetto della tradizione, tenerezza d'estetica: se que-
ste — pensavo — non sono virtù francesi, che son forse
nostre? Meglio, meglio un forestiero. Così vedremo « Do-
gnanna » ripristinato e riabitato comme il faut. Che potrà
diventare? Un Albergo? E prosit. Sarà — vegliato dalla luna
amorosa, cullato, quasi, dalle acque tranquille che ne rispec-
chiano e ne disseminano il lume, addormentato dal mi-
sterioso silenzio di tanta poetica vastità — il sogno delle tou-
ristes e de' poeti esotici, il ritrovo degli assetati d'emo-
zione e di acqua zurfegna, il Bayreuth della mandolinata
e de' posteggiatori naviganti.
— Ma di che vi lagnate? — diceva, in tram, l'altro
giorno, un signore a un suo vicino che andava a mangiare
il fritto di pesce a Marechiaro, da Vicienzo. Ma sapete che
il signor Genevois ha comprato « Dognanna » con tanti
be' denari suonanti?
I mormorii e le proteste erano cominciati da villa Quer-
cia, appena s'era svelata a noialtri del tram la nuova fab-
brica, tutta gialletta e sfacciatella, sul vecchio e non più
venerato bigio delle inferiori mura fansaghiane.
— Ma, caro signore.
— Lo so: d'accordo: a Venezia, a Firenze, a Milano, a
Torino, a Roma, a Palermo queste cose non si permette-
rebbero.
— Dunque, m'aiutate a dire?
— Ma lo sapete che siamo a Napoli?