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Napoli nobilissima — 1.1892

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NAPOLI NOBILISSIMA

glia di Ottone, conte di Nevers, avevano avuto in dono
mille ducati; altri denari avea loro mandati Elisabetta, ma-
dre di Corradino, per messe all’anima del figliuolo. Con
queste somme, col permesso ottenuto, nell’anno stesso
1270, da Carlo I d’Angiò, che avea pur concesso loro un
altro spazio di terreno, i frati avrebbero dovuto por mano
alle opere nuove trent’anni prima del 1300, trentuno, a
un dipresso, dall’esecuzione di Corradino. Ma in verità
l’ampliamento e la ricostruzione principiarono appresso.
Oltre a due documenti del 1283 e del 1301, che facevano
parte dei manoscritti del monastero di S. Gregorio Mag-
giore, lo storiografo sincrono Ricobaldo da Ferrara ci narra
di tali circostanze che assegnerebbero di fermo alla fonda-
zione della nuova chiesa il 1300 o al più il 1283, epoca
nella quale il principe di Salerno, morto suo padre Carlo I,
permise che su’ tumuli di Corradino e di Federigo d’Au-
stria sorgesse la nuova chiesa del Carmine. La quale, a
quanto pare, si lasciò addietro la vecchia : un diploma di
re Carlo II, concedendo un pezzo di terra ai padri predi-
catori di S. Pietro martire nello stesso campo Moricino,
assegna loro un posto tra « la chiesa vecchia di S. Maria
del Carmelo e le botteghe degli Aiossa e degli Aprano. »


(Disegno, dall’originale esistente nel Museo
di S. Martino)

La statua muliebre,
ch’io qui riproduco
allo stato in cui si rat-
trova ora nel Museo
di S. Martino, fu cre-
duta quella della ma-
dre di Corradino. Ho
riferite quassù le ra-
gioni che oppugnano
questo convincimento.
Aggiungo ad esse que-
sta che mi pare debba
essere tra le più logi-
che e convincenti : Al
tempo nel quale la so-
vranità di Carlo d’An-
giò pesava, a Napoli,
con tanta rigidezza,
sulle cose nostre, fin
sul nostro pensiero,
era possibile ai frati del

Carmine di mostrare al popolo, agli angioini medesimi, la
pietosa figura marmorea della madre di Corradino? Poi
che lo stile della scultura rimonta proprio all'epoca di re
Carlo I : quel marmo era collocato, in quel tempo, di fac-
cia alla chiesa e stava all’angolo di una casa che il viceré
conte di Pegnaranda fece, con altre, abbattere, nel 1662.

Non era possibile : tra le due donne, soccorritrici della
chiesa, se i frati scelsero una, per mandarne a’ posteri
l’atto pietoso, accortamente non la vedova di Corrado V
di Svevia ma scelsero la principessa angioina. La statua,
dunque, rappresenta la contessa di Tonnerre. Ella dette
mille ducati a’ frati, perchè avessero celebrate molte messe
per l’anima sua. Elisabetta sveva —- una madre — volle
che il denaro che anche lei aveva offerto, servisse invece
per la pace eterna del figlio.
Esaminando con attenzione la statua, si capisce, dal suo
dosso piatto, ch’essa era destinata ad essere attaccata ad
una parete o, magari, a star in una nicchia. Di sotto la
corona, a gigli francesi, angioini ella forma, spuntano i
capelli a trecce e le trecce, dalle due bande, si raccolgono
sulle orecchie. Un manto reale, chiuso al collo da un fer-
maglio a così detti lacci d’amore, copre la lunga veste,
dalla quale spuntano, appiedi, calzature puntute, sull’uso
del tempo. La parte inferiore del volto è malconcia; la
mano destra, nella quale era la borsa famosa, manca del
tutto. Nella sinistra è stretto un oggetto ch’io non saprei
definire. È, insieme, un lavoro di scultura, tra rigida e
convenzionale, d’un di que’ tali maestri Dini o Facci o
Marchi che facevano la delizia dell’ottimo e compianto
Lilyrcus, ma ch’erano, in verità, la disperazione dell’arte.
Or, fino al 1662, la statua rimase nella piazza del Mer-
cato : abbattuta la casa alla quale essa si addossava da ben
quasi quattro secoli, il marmo fu restituito a’ frati e co-
storo lo collocarono nel convento. Il canonico Celano,
cui nulla sfuggì nella compilazione del suo libro interes-
santissimo sulle cose di Napoli, narra d’averla vista, in-
torno al 1692, attaccata a un muro, nel secondo chiostro
del convento stesso. Tutti, in quel tempo, continuarono
a credere, e pur il Celano, che la statua rappresentasse
proprio Elisabetta sveva, anzi, come nel 1670 s’era tro-
vata dal Padre Moscarella un’iscrizione, frammentata, di
Corradino, nello sterrare il terrapieno a un angolo del
convento, lo stesso Moscarella avea pensato di collocare
nella porteria del convento tutte e due cose : la scritta e
la statua. Ciò non seguì per la morte del Moscarella : fu
solo nel 1711 ch’essa venne murata in un pilastro, acco-
sto al casottino del portinaio : un frate anch’esso, che forse
amò più di pigliar tabacco, là dentro, che di guardare a
quel marmo e di pensar, triste, alla triste storia che esso
rievocava. E lì rimase questo fin al 1818, anno nel quale
la R. Accademia Ercolanese ottenne che fosse rimosso e
trasportato nei magazzini del Museo borbonico, da’ quali
uscì dopo il 1848 per rimanere nella collezione medievale
fin al ’6o. Ma non ancora erano finite le sue peregrina-
zioni : dalla collezione medievale, domandandolo il Fio-
relli, passò nell’abolito monastero di Santa Teresa e da
questo, finalmente, al Museo civico di San Martino. Lo
 
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