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Napoli nobilissima — 1.1892

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RIVISTA DI TOPOGRAFIA ED ARTE NAPOLETANA

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poli, per solennizzare con una festa popolare la fine del
Carnevale dell’anno 1811, in mezzo al largo di Palazzo
reale.
Il largo, che appunto in quell’anno trovavasi pieno di
rottami per le demolizioni, ed i consecutivi abbellimenti
che vi seguivano, fu trasformato, come per incanto, in un
ameno e ridente villaggio, al quale si perveniva per vaghe
e pittoresche viarelle, tutte fiancheggiate da alberi e co-
verte di verzura, e qua e là spiazzi, e in questi e nelle
sinuosità delle pendici tende e capanne cariche, zeppe di
tremila sacchi di farina, che da quarantadue fanciulle po-
polane delle varie parrocchie della città e dei borghi ve-
nivano dispensate ai poveri.
Queste fanciulle erano
. . . vestute assa] e nzemprece e care,
cioè alla foggia delle donne del Molo piccolo.
Esse dopo aver data la farina ai poveri, sedettero ad
una tavola
.de Fate.
Chella che sta sott’a lo Barraccone
Che ghiusto nrniezo s’aoza! ....
e questo barraccone era
.... ncoppa a lo modiello
Fatto dello Cerriglio ricco e bello.
Qui il poeta non ci perde una descrizioncella.
Llà, nchillo tiempo che li cauzune
Co le tterocciolelle se tiravano,
Na renghera nce stea de cammarune
Larie, aute, e fate, che se ncruciavano:
Da le gra’ arcate de li lamtniune
Co no sforzo accossì pennoliavano
Larde, presotta, nuoglie, verrinielle,
Capecuolle mpannute e mortatelle.
Ntuorno pe ccà e pe là fummecchiavano
Pignate mmaretate, e tianune
A centenara li spite votavano,
Frievano tielle a buonecchiune,
Tiseche e luonghe llà se menestravano
L’arcidelezziuse maccarune;
Che ntra caso e zuchillo arravogliate,
Fanno di’: scinne, scinne.... a li palate.
Chi contà potarria li Mangiature,
Massema a lo nchiudì de Carnevale,
De tutt’aità, de tutte le nnature,
Che faceano agliottenno a chi cchiù bbale?
No cagnare de vuce, e dde colure,
No remmore de mole, no strillare,
No ridere, no di’: viva la grassa!
Gusto era affé ch’ogn’autro gusto appassa.
Ma, mentre le ffigliolelle ntra li cante e ntra li suone man-
giavano, servite co’ gusto e attenzione, na folla nfenita, co-

minciava il saccheggio, pigliava la roba a bbrancate, a map-
pate, a sporta; tentava di salire ncoppa a li Maje (*), erano
otto, pe se piglia lo bene che nce ncoppa, o si dissetava ad
una fontana di vino
Che co l’addore schitto a abballà mmita.
E la confusione crescea, perchè
Chi sta l’arciulo, e chi lu cato enchienno!
Chi nc’ha lu musso comm’a calamita!
Chi s’addorme! chi cade! chi smestenno
Va li compagne.... Uh che folla nfenita!
e quarcuno s’ammaraca e se ncotta,
Ca pe panza tenè vorria na votta.
Ed è proprio vero. Le plebi una volta sfrenate diven-
tano incontentabili.
Vincenzo d’Auria.

NOTIZIE ED OSSERVAZIONI.

I RESTAURI DELLA CHIESA DI DoNN’AlBINA.
« Son passato per caso stamattina innanzi alla chiesa dell’abolito
monastero di Donnalbina, e ho visto, attraverso la porta aperta, un
affaccendarsi di muratori, falegnami, ed altri operai. Entrato per cu-
riosità nella chiesa, ho trovato che la stanno mettendo a nuovo. Im-
biancano, stuccheggiano, rifanno gli altarini, restaurano i quadri.
Quando si parla di queste rifazioni, il primo movimento non è di
piacere — come dovrebbe essere — a pensare che qualcuno piglia
cura delle opere artistiche e monumentali della nostra città, ma di
terrore: terrore giustificato dagli spaventosi restauri fatti in questi ul-
timi anni! Sono corso subito coll’occhio alle pitture di Nicola Malin-
conico, discepolo di Luca Giordano, che stanno nel mezzo della ricca
soffitta dorata; e le ho trovato in buono stato. Poi, sono andato a
guardare gli affreschi della cupola, i più belli forse usciti dal pennello
di Francesco Solimena. Quelli della vòlta sono mezzo cancellati, per
colpa del tempo; e non c’è rimedio. Le figure delle quattro virtù
teologali che, in modo vaghissimo, riempiono i peducci, sono, qua e
là, screpolate; e certamente si penserà a rattopparle. Ma — qui è
il pericolo — dopo il rattoppamento, verrà il ritocco; e quel ritocco,
forse o senza forse, farebbe perdere l’effetto di una delle migliori pro-
duzioni della scuola pittorica napoletana dell’ultimo seicento. Che la
commissione provinciale, la commissione comunale, chiunque ha a
cuore le glorie della nostra arte, e può qualche cosa, ci pensino a
tempo: io do a tempo l’allarme. I lavori nella chiesa procedono
con rapidità; oltre l’imbiancamento quasi finito, hanno rifatto varii al-
tarini a mano destra, di stile classico, marmo finto violetto, giallo,
rosa, ecc., dei quali, pur troppo, ognuno di noi ha presente innanzi
agli occhi il tipo volgarissimo. In mezzo al grandioso altare maggiore
tutto rivestito di marmi commessi, hanno formato una nicchia di
stucco, che finisce in una conchiglia inargentata, qualche cosa tra

(1) Il divertimento del Majo consiste nell’esser abile a salire in
cima di un albero di nave unto di sego, e coronato alla cima di sa-
lami, formaggi ed altri premi. La piazza Majo di Porto « era così
« detta perchè qui anticamente nel primo di maggio si faceva una
« festa, apparandosi tutta di fiori di ginestra, che fino ai nostri tempi
« si chiamano fiori di Majo; e vi si piantava un lungo arbore di nave,
« e nella cima vi si attaccavano diversi premi, ed erano di coloro,
« che a forza di braccia e destrezza vi salivano: e questo gioco anche
« a’ tempi nostri ritiene il nome di Majo. — Celano, ed. c., G. IV,
p. 116-17.
 
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