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Napoli nobilissima — 1.1892

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136

NAPOLI NOBILISSIMA

IL PALAZZO
E IL GIARDINO DI POGGIOREALE
IL
Decadenza.
Una storia più lunga ebbero il palazzo ed i giardini di
Poggioreale, che, rimasti patrimonio della regia Camera,
servirono, ancora per molto tempo, come luogo di sol-
lazzo o di ritrovo, in qualche solenne occasione. Ivi, nel
17 settembre 1523, si raccolsero in circa duecento napole-
tani e spagnuoli della milizia dei « continui... tutti bene
« a cavallo et tutti bene armati con soprabande » per es-
sere passati a rassegna innanzi a « lo signore Viceré et
«tutto lo Consiglio e Scrivano di ratione » G). E di là
mossero per la Lombardia a prendere parte alla guerra,
allora cominciata, tra Carlo V e Francesco I, che sconvolse
tutta l’Italia, e riuscì pure funesta a Poggioreale.
I francesi, che nell’anno 1528, guidati da Lautrec, ven-
nero a stringere Napoli d’assedio, s’erano accampati sopra
una collina fuori Porta Capuana, nella masseria del duca
di Montalto, donde i paggi scendevano ogni giorno ad ab-
beverare i cavalli nel Sebeto e a Poggioreale. Ma, una
volta, sorpresi i paggi dagli spagnuoli, usciti all’improv-
viso dalla città, i cavalli furono predati; e cresciuta l’ira,
rinnovaronsi le zuffe; e i guasti da quella parte furono
continui e grandi. Finché Lautrec, perduta ogni speranza
d’impossessarsi altrimenti di Napoli, fe’ rompere l’acque-
dotto della Bolla, che, attraverso i giardini di Poggioreale,
conduceva l’acqua nella città. Ma, scoppiato il contagio,
morì Lautrec, ed a migliaia morirono i suoi, che furono
sepolti nei dintorni di Poggioreale.
Un poeta del tempo che attribuì l’esterminio dei fran-
cesi a quelle acque, notò pure un marmo, che fu posto in
quel luogo
.Ove scritto
Stava il tenor del vilipendio et danno
Ch’ebbe l’Autrech con con sue genti trafitto.
E rammentando i danni, ivi avvenuti durante la guerra,
e l’abbandono del palazzo, fra l’altro scrisse :
L’alto nome Aragoneo mi pareva,
Che si piangesse, non solo in quell’acque,
Ma nel palagio anchor, che si doleva,
Del già spento decoro ond’egli nacque,
Pianger in ogni loco ivi intendeva
Dovunque infausto, et gloria, un tempo giacque,
Fra tanti Regi il Re di spirti chiari,
Con sua corona ’l scettro, il genio e i lari (2).

(1) Giuliano Passaro, Giornali, p. 306.
(2) Fuscano, Le bellezze di Napoli, Roma, 1531.

Intanto l’aria, che ivi non era stata mai molto sana, si
corruppe ancora più, e tutto divenne allora più squallido.
Eppure, attirato, forse, dalla fama e dai ricordi, l’impera-
tore Carlo V volle anche recarsi a desinare a Poggioreale,
quando, reduce nel 1535 dall’impresa di Tunisi, egli era
rimasto tre giorni a Pietrabianca, nella magnifica villa del
Martirano, aspettando che si ultimassero gli apparecchi della
sua entrata in Napoli. Proprio in quel luogo, il 25 novem-
bre, comparvero « i signori titolati. e i ventinove capi
« di piazze, con li loro consultori, tutti vestiti di damasco
« paonazzo, e molti prelati e ufficiali », i quali, dopo che
il Sindaco e gli eletti dei Seggi ebbero offerte le chiavi
e baciato il ginocchio all’imperatore, lo accompagnarono
trionfalmente nella città. E fra le feste, che durarono a
lungo, ai 19 decembre, don Pietro di Toledo fece im-
bandire un solenne banchetto nei giardini di Poggioreale
« dove se pigliò l’imperatore grandissima ricreazione, e
« particolarmente di un’egloga o farsa popolare che ci
«fu molto ridicola » (T). Ma subito dopo, tutto ritornò
nel silenzio; e la custodia del palazzo e dei giardini era
affidata ad un governatore con provvisione mensile di
ducati quattordici e tre tari; e insieme v’erano stati ad-
detti un guardiano e un giardiniere; l’uno con centoventi,
l’altro con cinquantadue ducati l’anno. E trovo un mar-
chese Alanero, investito da quell’ufficio nel 1554, ed un
Francesco Diaz, che gli successe per due anni, finché
Filippo II, donò, vita durante, il palazzo e i giardini alla
vedova Regina di Polonia, Bona Sforza, forse per averne
ricevuti a prestito, come scrisse il Filonico, 600 mila
scudi. Ma Bona, tornata allora dal suo regno a Bari, mo-
riva nel novembre 1557, e Francesco Diaz riottenne il
governo, dal quale era stato rimosso; ed ai 12 decembre
di nuovo gliene fu data la consegna. Ma nel minuto
inventario, che per fortuna rimane, non s’intende la ca-
gione, perchè non si fece cenno delle statue e degli altri
ornamenti del palazzo, nè dei giardini, che pure sono
rammentati nelle descrizioni posteriori; e tutto si riduce
ad un mazzo di sessantuno chiavi, a un certo numero di
vecchie travi e di tavole accatastate nelle stanze e nelle
logge, a non so quanti mozziconi di legno, sparsi qua e
là, e a « certi legnami che hanno servito per lamie ». E,
forse, come solo avanzo della ricca suppellettile, si notano
due banchi, tre stipi, « sette seggie de coyro all’imperiale,
tra le quali, « ce ne so doie rotte », e ancora lo schiavo
Mustafà, un « turco de circa ventiotto anni con li signi
in faccia et da poi levati », e che Filippo II aveva donato
a Bona, affinché l’adoprasse a lavorare nei giardini G).

(1) Gregorio Rosso, pp. 60, 65.
(2) Confr. Lega del Bene, anno 1887, n. 38.
 
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