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NAPOLI NOBILISSIMA
Restarono poi lettera morta le prammatiche posteriori,
massime quella del viceré don Pietro Giron, con la quale
s’ingiungeva a quelli che col cedo bonis pagavano i loro
creditori, a portare « le loro barrette o cappelli di color
« turchino con bambacini intorno apparenti, durante la
« lor vita, e quei segni dovevano ponersi in croce sopra
« i cappelli, perchè si rendessero noti a tutti ».
Ai contravventori era minacciata la galera (0.
Ed a richiamar ulteriormente in vigore la prammatica
del Cardinal d’Aragona, emanata allo scopo di porre un
argine alle spesse e fraudolenti fallenze, e che comminava
la pena della morte e della fuorgiudica, vi volle un editto
del Re Cattolico (1 2 3 4 5).
Le antiche leggi di eccezione del cessato governo delle
due Sicilie sanzionavano che il fallito ammesso al benefi-
cio della cessione, era tenuta a farla di persona dinanzi
ai creditori alla udienza del Tribunale (3); ed il Codice
italiano aggiunge che questa dichiarazione va fatta alla
cancelleria entro tre giorni dalla cessazione dei pagamenti,
col deposito del bilancio e dei libri corrispondenti.
Nè solo nel napoletano stette questa ignominiosa pena
in vigore, ma ancora in altre regioni d’Italia.
In Firenze i debitori decotti battevano in Mercato nuovo
il sedere su di una lastra di marmo tonda, che chiamavasi
Carroccio, perchè ivi fermavasi il Carroccio sul quale sven-
tolava l’insegna dei Fiorentini, quando si arrolavano per
combattere.
A quest’usanza alludendo il Lippi, trova nell’inferno
quelle
Donne, che feron già per ambizione
D’apparir gioiellate e luccicanti
Dare il culo al marito sul lastrone (4).
La letteratura popolare, sorgente inesauribile di usi e
costumanze patrie, non lascia la colonna della Vicaria lì
in asse senza un rammarico (5), uno scherzo (6), una me-
tafora.
Filippo Sgruttendio la rassomiglia al niveo collo della
sua Cecca :
(1) Pramm. sotto il titolo de cessione bonorum, pubblicata ai 23 di
marzo 1585; comincia: L’occasioni che succedono ecc.
(2) Pramm. pubblicata a 30 marzo 1606.
(3) Art. 565.
(4) Malmantile racquistato, sesto cantare st. 73.
(5) « ... e pe chesto l’abbesogna pe forza, o morire dinto a le car-
« cere, overo, se vo’ scire, sbregognarese a la colonna de la Vecaria,
« co fare zitabona ». Bartolommeo Zito, annot. al canto V. c. II
della Vaiasseide.
(6) Più o meno varia, è nota questa quartina:
Colonna santa, colonna viata,
Tutte li diebbete tu m’hai levata;
Si sapeva primma la tua vertù,
N’havarria fatto duciento de cchiù.
Accossì liscio e tunno, justamente
Pare colonna de la Vicaria
Ma si tu, Cecca la vuoie fare bona,
Già che de guste m’aie fatto pezzente,
Famme fa a ssa colonna zita bona (1)
La colonna della Vicaria scomparsa agli occhi del po-
polo, nel 1856, quando si pose mano al restauro del vec-
chio e deforme castello con un acconcio e ben ideato pro-
getto dell’ispettore generale del Genio Civile signor Gio-
vanni Riegler, non serviva solo all’uso, cui ho accennato.
Essa era pure la Morgue del governo viceregnale e di
quelli che lo seguirono.
Quivi esposta più di una creatura umana ha fatto fre-
mere, inorridire, piangere per compassione.
Bastava appena la voce che un morto trovavasi sotto
la colonna della Vicaria, che la piazza si riempiva di gente
che affluiva dai quartieri bassi e dai più remoti della città.
E a gruppi, a capannelli, questa gente oziosa, che si
trova sempre presente alla festa, come al mortorio, ne fa-
ceva la storia. Storia che di bocca in bocca passando si
allargava, si snaturava, pigliava proporzioni enormi, fanta-
stiche, paurose.
L’infelice era stato trovato morto a colpi d’achibugio
sull’albeggiare in una viuzza di Napoli da una ronda di
birri ritardatarii in perlustrazione.
E in mezzo a un gruppo uno scrivano con voce sten-
torea e con parole, che agli astanti saper dovean d’ama-
rico diceva : — vedete, l’infelice è vulneratum duobus vul-
neribus ictu archibusii. È fuxtce staturae, barbae nigrae; po-
trà avere una quarantina d’anni, porta un cappello « di
« feltro negro e un gippone di fustagna ». E vi posso
assicurare che in sacculis gli hanno trovata una borsa.
Ed aggiungeva : delle due ferite l’una in pectore sub mam-
milla sinistra delatere ad latus, è penetrante; l’altra nel brac-
cio, pure sinistro, suptus cubitum (2).
Intanto il povero ignota restava indarno esposto alla cu-
riosità del volgo per tutto quel giorno e l’altro e l’altro
ancora, nè se ne poteva constatare l’identità e appurare
la cagione del misfatto.
E queste scene truci e strazianti, con pochi risultati e
meno provvidenze di giustizia, si ripetevano spesso.
Nel 1634 uno spettacolo simile al narrato, ma più rac-
capricciante pel modo, venne ammannito al pubblico con
(1) Tiorba, Corda I, Son. XIX.
(2) È una delle tante formole di cui si servivano gli scrivani, i ma-
strodatti, i giudici ecc. Un libro molto curioso, perchè contiene quasi
tutti i modelli di queste formole, e ancora « un breve trattato dei ve-
ci leni, dello.e notomia della parte » è quello che col titolo
di Guida informativa criminale stampò in Napoli nel 1712 il sacerdote
Ottavio Liguoro, diocesano d’Aversa, con licenza dei superiori.
NAPOLI NOBILISSIMA
Restarono poi lettera morta le prammatiche posteriori,
massime quella del viceré don Pietro Giron, con la quale
s’ingiungeva a quelli che col cedo bonis pagavano i loro
creditori, a portare « le loro barrette o cappelli di color
« turchino con bambacini intorno apparenti, durante la
« lor vita, e quei segni dovevano ponersi in croce sopra
« i cappelli, perchè si rendessero noti a tutti ».
Ai contravventori era minacciata la galera (0.
Ed a richiamar ulteriormente in vigore la prammatica
del Cardinal d’Aragona, emanata allo scopo di porre un
argine alle spesse e fraudolenti fallenze, e che comminava
la pena della morte e della fuorgiudica, vi volle un editto
del Re Cattolico (1 2 3 4 5).
Le antiche leggi di eccezione del cessato governo delle
due Sicilie sanzionavano che il fallito ammesso al benefi-
cio della cessione, era tenuta a farla di persona dinanzi
ai creditori alla udienza del Tribunale (3); ed il Codice
italiano aggiunge che questa dichiarazione va fatta alla
cancelleria entro tre giorni dalla cessazione dei pagamenti,
col deposito del bilancio e dei libri corrispondenti.
Nè solo nel napoletano stette questa ignominiosa pena
in vigore, ma ancora in altre regioni d’Italia.
In Firenze i debitori decotti battevano in Mercato nuovo
il sedere su di una lastra di marmo tonda, che chiamavasi
Carroccio, perchè ivi fermavasi il Carroccio sul quale sven-
tolava l’insegna dei Fiorentini, quando si arrolavano per
combattere.
A quest’usanza alludendo il Lippi, trova nell’inferno
quelle
Donne, che feron già per ambizione
D’apparir gioiellate e luccicanti
Dare il culo al marito sul lastrone (4).
La letteratura popolare, sorgente inesauribile di usi e
costumanze patrie, non lascia la colonna della Vicaria lì
in asse senza un rammarico (5), uno scherzo (6), una me-
tafora.
Filippo Sgruttendio la rassomiglia al niveo collo della
sua Cecca :
(1) Pramm. sotto il titolo de cessione bonorum, pubblicata ai 23 di
marzo 1585; comincia: L’occasioni che succedono ecc.
(2) Pramm. pubblicata a 30 marzo 1606.
(3) Art. 565.
(4) Malmantile racquistato, sesto cantare st. 73.
(5) « ... e pe chesto l’abbesogna pe forza, o morire dinto a le car-
« cere, overo, se vo’ scire, sbregognarese a la colonna de la Vecaria,
« co fare zitabona ». Bartolommeo Zito, annot. al canto V. c. II
della Vaiasseide.
(6) Più o meno varia, è nota questa quartina:
Colonna santa, colonna viata,
Tutte li diebbete tu m’hai levata;
Si sapeva primma la tua vertù,
N’havarria fatto duciento de cchiù.
Accossì liscio e tunno, justamente
Pare colonna de la Vicaria
Ma si tu, Cecca la vuoie fare bona,
Già che de guste m’aie fatto pezzente,
Famme fa a ssa colonna zita bona (1)
La colonna della Vicaria scomparsa agli occhi del po-
polo, nel 1856, quando si pose mano al restauro del vec-
chio e deforme castello con un acconcio e ben ideato pro-
getto dell’ispettore generale del Genio Civile signor Gio-
vanni Riegler, non serviva solo all’uso, cui ho accennato.
Essa era pure la Morgue del governo viceregnale e di
quelli che lo seguirono.
Quivi esposta più di una creatura umana ha fatto fre-
mere, inorridire, piangere per compassione.
Bastava appena la voce che un morto trovavasi sotto
la colonna della Vicaria, che la piazza si riempiva di gente
che affluiva dai quartieri bassi e dai più remoti della città.
E a gruppi, a capannelli, questa gente oziosa, che si
trova sempre presente alla festa, come al mortorio, ne fa-
ceva la storia. Storia che di bocca in bocca passando si
allargava, si snaturava, pigliava proporzioni enormi, fanta-
stiche, paurose.
L’infelice era stato trovato morto a colpi d’achibugio
sull’albeggiare in una viuzza di Napoli da una ronda di
birri ritardatarii in perlustrazione.
E in mezzo a un gruppo uno scrivano con voce sten-
torea e con parole, che agli astanti saper dovean d’ama-
rico diceva : — vedete, l’infelice è vulneratum duobus vul-
neribus ictu archibusii. È fuxtce staturae, barbae nigrae; po-
trà avere una quarantina d’anni, porta un cappello « di
« feltro negro e un gippone di fustagna ». E vi posso
assicurare che in sacculis gli hanno trovata una borsa.
Ed aggiungeva : delle due ferite l’una in pectore sub mam-
milla sinistra delatere ad latus, è penetrante; l’altra nel brac-
cio, pure sinistro, suptus cubitum (2).
Intanto il povero ignota restava indarno esposto alla cu-
riosità del volgo per tutto quel giorno e l’altro e l’altro
ancora, nè se ne poteva constatare l’identità e appurare
la cagione del misfatto.
E queste scene truci e strazianti, con pochi risultati e
meno provvidenze di giustizia, si ripetevano spesso.
Nel 1634 uno spettacolo simile al narrato, ma più rac-
capricciante pel modo, venne ammannito al pubblico con
(1) Tiorba, Corda I, Son. XIX.
(2) È una delle tante formole di cui si servivano gli scrivani, i ma-
strodatti, i giudici ecc. Un libro molto curioso, perchè contiene quasi
tutti i modelli di queste formole, e ancora « un breve trattato dei ve-
ci leni, dello.e notomia della parte » è quello che col titolo
di Guida informativa criminale stampò in Napoli nel 1712 il sacerdote
Ottavio Liguoro, diocesano d’Aversa, con licenza dei superiori.