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Napoli nobilissima — 1.1892

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NAPOLI NOBILISSIMA

dell’amata. Seguendo un costume ed un genere di arte
tanto in voga in quel tempo per quanto dimenticati ora,
il Rota rappresentò il suo dolore con imprese allegoriche
illustrate da moti latini, e le fece dipingere sulle pareti
di ogni stanza. Quelle imprese sono minutamente descritte
e discusse in un dialogo di Scipione Ammirato, che si
suppone avvenuto nella villa del Rota (z). Seguendo il giro,
che gli interlocutori, Nino dei Nini vescovo di Potenza,
Alfonso Cambi e Bartolomeo Maranta, condotti dal Rota,
fanno nella villa, si può ricostruirne dai loro discorsi
l’aspetto.
All’entrata del giardino essi osservano la casa del cu-
stode e poco lungi il sepolcro di uno schiavo africano,
sul quale leggono questa epigrafe :
SERVE AMOR HORTORUM CUSTOS DOMINIQUE VOLUPTAS
HOC TE SUBLIMEN COSTITUÌ IN TUMULO
UT QUAE TANTA FUIT VIVENTI HAEC IPSA SEPULTO
INCUSTODITI SIT TIBI CURA LOCI
BERNARDINUS ROTA
AMORI AFRICANO
SERVO INCUNDISSIMO.
Il nome di questo schiavo si presta bene ad un giuoco
di parole, e il Rota non si era lasciata sfuggire l’occasione.
In molti punti aveva fatto scolpire : Servit amor Domino,
Dominus cur servit amori. « Il primo amore » — spiegava
agli amici — « è il servo mio, e il secondo amore è il
« signore di tutti gli uomini, non che di me, suo anti-
« chissimo servo ».
Per una porta, sulla quale un’iscrizione ammoniva le
persone moleste ad allontanarsi, entrano in un secondo
recinto ricco di statue e notevole per l’armonia degli or-
namenti. Vi erano due lapidi e varii frammenti di scultura
romana : una cornucopia, una biga di Cerere tirata dai
draghi, una testa di matrona, doni di Giovanni Carafa
Duca di Palliano; il bassorilievo di una pugna, e due vil-
lanelle, doni di Vespasiano Gonzaga. E poi due statue di
Zefiro e di Flora; e poi un Bacco coi racemi dell’uva in-
ghirlandato morbido e grasso e nemico della fame, al quale
par che la carne brilli sulle guancie; e poi una testa di
Marsia col naso schiacciato, e con la fronte piatta e coi labri
grossi.

(i) Ammirato, Il Rota ovvero delle imprese, Firenze, Giunti, 1598,
passim. Nel libro III dei Carmina di B. Rota (Nap. 1582, pag. 22)
vi è l’elegia IX ad Scipionem ammiratum. Il poeta invita il suo amico
a visitarlo nella villa di Echia, e aggiunge:
Huc tecum veniat Ninus, nec Cambius absit,
Tu Cicarelle veni, tuque Maranta veni.
Qui simul hic repetant iterum mors una duobus
Et recolant gemitus tot monimenta mei.
Quorum colloquia statuae, circumque resultet
Porticus, et nostro pietà dolore domus, ecc.

Dal giardino la dotta compagnia entra nella loggia e
comincia ad ammirare le imprese. Ve n’eran quarantasei
in tutta la casa : sei nella loggia, otto nella sala, e tren-
tadue nelle otto camere, quattro per ciascuna. Il Rota le
aveva scelte fra le moltissime da lui composte nella vee-
menza del dolore; e, se questo modo di manifestarlo vi
sembra strano, non so che farvi, allora usava così. Le
imprese della loggia rappresentavano : una spina, col motto
arditale viret; un fascio di strali e di archi d’amore spez-
zati, sotto del quale si leggeva fratta magis feriunt; una
nottola che portava scritto: vita foret.... Ma questa enu-
merazione se poteva interessare i lettori del secolo XVI,
non riuscirà certo piacevole a quelli del XIX : chi se ne
diletti potrà leggere il dialogo dell’Ammirato.
Dopo la morte di Bernardino Rota (1557), il figliuolo
Antonio, che gli fu erede, vendette la villa ad un tal Diego
Robles, dal quale la comprò Costanza Doria del Carretto
Principessa di Melfi. Fu costei la fondatrice del convento
di S. Maria degli Angeli, come si dirà più avanti, e al
convento fu incorporato infine questa villa così piena di
memorie del più bel tempo della nostra storia letteraria (0.
Un’altra villa fu costruita ad oriente dell’altura, verso il
1580, da Don Luigi di Toledo,
figlio del primo Cavalier di Spagna,
e luogotenente del Regno al tempo della guerra di Siena,
e dopo la morte del padre. Nessuna descrizione ci rimane
della casa, ma in compenso ne abbiamo varie del giardino,
che la superava, pare, in magnificenza (1 2).
Sparse nei viali, sotto gli alberi rari e le vaghe vòlte
di verdura, si vedevano molte statue di eroi e di altri
personaggi mitologici. Belle fontane lo adornavano. In una
era Orfeo, che col canto si trae dietro molte specie di
fiere
attente sì che non può dir chi loda
l’opre sì rare e belle
che l’un non suonie l’animal non oda;
e in giro, su eleganti sedili di marmo alcuni semidei, che
a più bel vedere
oltre le dette fiere
gittavan acque d’intorno al bel sedere.
In un’altra vi era Venere seguita dagli amori e dai giuo-
chi, e mostri marini e satiri lascivi sommersi nell’acqua
nuotavano incontro alle Andromade.

(1) V. la citata relazione del Galiuccio.
(2) Il Capaccio ne parla nel Forastiero a pag. 465, nelle Histone
Neapolitanae a p. 401, e nel Segretario (Venezia, 1607) a p. 306; il
del Tufo lo descrive minutamente nelle Grandezze di Napoli (Ms.
della Bibl. Naz. di Napoli segnato XIII, C, 96) a p. 34 e seg. Confi
pure il Parrino, Teatro cit., voi. I, p. 226.
 
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