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Napoli nobilissima — 3.1894

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RIVISTA DI TOPOGRAFIA ED ARTE NAPOLETANA

121

senale ed il porto, e attaccò la battaglia. Muleassen ed
i mori della sua banda sostennero con molto animo l’in-
contro, ed il re con la lancia si difendeva e uccideva o
feriva quanti lo assalivano, ma, ferito anch’egli alla sua
volta in fronte, i mori della sua banda vedendolo col volto
tutto sanguinante si sbigottirono e si diedero alla fuga. In
questo mentre un altissimo e terribile grido di guerra ri-
sonò per tutta la campagna, ed un immenso stuolo di A-
rabi a cavallo ed a piede sbucò dai folti oliveti, che a si-
nistra si stendevano lungo la via che mette alla città, ed
improvvisamente circondò da per ogni parte i soldati del
Loffredo. I quali, tutto che presi così alla sprovvista, per
qualche tempo resistettero animosamente, e spararono con-
tro i barbari alcuni piccoli pezzi di artiglieria; ma innanzi
che avessero avuto l’agio di ricaricarli gli Arabi, che il
Summonte fa ascendere al numero di trentamila (x), gli fu-
rono così furiosamente addosso che essi, sebbene avessero
dapprima cercato di tener testa, pure, vedendo di non
poter in alcun modo reggere per la gran moltitudine dei
nemici, che, rotta l’ordinanza, facevano di chi resisteva
crudelissima strage, si diedero alla fuga per salvarsi nello
stagno, che era a dritta della via. Ivi alcuni, parte a nuoto,
parte sopra zattere appostatevi a tale scopo dal Tovar
scamparono la vita. Anche il Loffredo cacciò nella palude
il suo cavallo per salvarsi, ma, impigliandosi l’animale nella
melma e non potendo più andare nè avanti nè indietro, egli
fu raggiunto dai barbari ed, insieme con Carlo di Tocco,
che aveva preso la stessa via, miseramente ucciso (1 2 3 4 5).
Se non che altri vi furono — e non pochi — che preferi-
rono una morte più onorata combattendo con grandissimo
animo e costanza. Essi, finché poterono, venderono assai
cara la loro vita. Tra costoro furono, come dice il Gio-
vio, degni d’infelice virtù Jacopo Macedonio, Pietro An-
tonio Grandillo e Lorenzo Monforte, onorati cittadini Na-
politani, e principalmente quel vecchio Cola Tommaso
Cessa che, come aveva predetto, morì valorosamente, con-
fortando i capitani e luogotenenti conosciuti da lui, che
animosamente insieme, pugnando, volessero piuttosto fare
una morte degna di soldati, che vituperosamente morire
nel fango di una palude. Così, avendo ammazzato molti
barbari, fra innumerevoli corpi morti dei nemici non senza
vendetta perirono. L’ultima bandiera, che fu vista sven-
tolare nel campo, fu quella di tela bianca sostenuta da
Giov. Andrea Summonte, alfiere del Cossa. Così egli
ben dimostrò esser vero nipote di quel Filippo Sum-
monte, che nel 1516, militando sotto Massimiliano impe-
ratore in Verona assediata dai Veneziani e dai Francesi,
nell’abbattimento, che si fece di quattro cavalieri Francesi

(1) Summonte, o. c., t. IV, p. 159.
(2) Castaldo, Summonte e Costo, 1. c.; Giovio, 1. XXXXIV.

e quattro imperiali, fu uno dei campioni eletti, e si portò
con tanto valore che a lui principalmente si attribuì la
causa della vittoria degl’imperiali (’). Muleassen reso irri-
conoscibile dal sangue e dalla polvere che coprivagli la
faccia, fu accertato dall’odore dei profumi che abbonde-
volmente soleva portare addosso, e fu preso prigioniero e
condotto innanzi al figlio Amida, che tosto con un ferro
infocato lo fece accecare.
Nella battaglia morirono dei nostri più di 1300 uomini,
e 100 furono fatti prigionieri. Solo 500 circa si salvarono
alla Goletta, e furono dal Tovar mandati in Sicilia, donde,
traghettato il faro di Messina, a piedi ritornarono in patria.
Dopo qualche tempo Muleassen lasciato in libertà ri-
tornò in Italia per chiedere aiuti e soccorsi dall’impera-
tore e peregrinò per le città della penisola con assai scarso
frutto. Allora ritornò anche a Napoli, ma non con quella
riputazione, come dice il Castaldo, con cui vi era l’altra
volta venuto (2).
Nella Napoli viceregnale restò lungamente la memoria
degli Arabi, che i nostri con inflessione spagnuola (Alha-
rabes) chiamarono Alarbi (3), dello assedio della Goletta
e del nome di questa fortezza Africana. Nelle feste popo-
lari e più clamorose, che si facevano in quel tempo nella
nostra città, e specialmente nella festa del Carmine al
Mercato, si costumò di ergere un castello di legno e carta
dipinta, che nel giorno della festa era difeso dagli Alarbi (4),
ed assalito dai Cristiani, i quali dopo accanito combatti-
mento se ne impadronivano, e lo saccheggiavano (5). D’al-
tra parte la contrada ora detta di S. Brigida, dopo la costru-
zione di via Toledo, ebbe la denominazione di Au-
le tta (6 7) e di d. Francesco (7), dalla Goletta e da d. Francesco
di Tovar governatore di quella; che, dopo di essersi ap-
propriati i tesori di Muleassen presso di lui depositati, fu ri-
chiamato da quell’ufficio e venne a godersi in Napoli quella
ricchezza male acquistata ponendo quivi la sua dimora.
continua.
Bartolommeo Capasso.
(1) Summonte, 1. c.; Giovio, 1. XVIII.
(2) Castaldo, 1. c.
(3) Gli arabi anche così sono chiamati dal Giovio, Lettere, p. 16.
(4) Capecelatro, Diario delle cose avvenute negli anni 1647-1650,
voi. I, p. 15. Erano costoro « figliuoli scalzi di umilissima sorte, che
« vestiti alla Moresca, e tinto il volto, e la maggior parte del corpo
« di color rosso e di negro, avvolti in vilissimi cenci e con una can-
« nuccia in mano, si faceva chiamare la compagnia degli Alarbi ».
(5) Il fatto talvolta ponevasi anche in iscena, e tra i drammi per
musica dei primi anni del secolo XVIII trovasi lo castiello succhiato
(1722), nel quale la favola si svolge al Molo piccolo.
(6) I napoletani, sopprimendo la g e mutando: L’o in u, chiama-
vano la Goletta VAuletta, e così la chiama anche il Summonte. Nel
1547 trovo l’ubicazione in platea dell’Auletta prope moenia antiqua ci-
vitatis, Acta visit, paroc. maj., a. 1580, fol. 226, v.
(7) Secondo il Celano, V, 123, la strada di S. Brigida fu detta di
D. Francesco, perchè aperta da D. Francesco de Tovara, spagnuolo,
il quale vi fabbricò la sua casa.
 
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