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Napoli nobilissima — 3.1894

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NAPOLI NOBILISSIMA

« detto monastero a tutte loro spese e per tutto lo primo
« de novembre », cioè nove giorni dopo (’).
Nel 1603 si lavorava ancora, ed il banco Turbolo e
Caputo paga a Lorenzo Positano « due. 58, tt. 4, g. 16,
« e per lui a Minico Monfuso per lo prezzo de pesi 528
« de calce decqua, che li ha venduti e consignati per ser-
« vitio dela fabrica del Campanale del monastero de S.ta
« Chiara » (1 2 3 4 5).
Ed è oramai certo che alla suddetta epoca si riprese la
fabbrica, ed il novello architetto, chiamato a completarla,
vi portò le sue idee. Egli sulla vecchia architettura gotica
v’innestò la nuova con i famosi cinque ordini, che sono
poi rimasti a tre, ed operò tagliando il vecchio campanile
sulla linea degli archi; tolse le colonne ai finestroni, e si
veggono ancora oggi troncate sulle basi, e gli riuscì facile
di sostituire al sesto acuto, l’arco tondo con la vòlta a
scodella, e col cornicione esterno completò il primo piano
di ordine toscano, con eguale abilità trasformò il secondo
in ordine dorico, e gli riuscì facilissimo costruire di pianta
il terzo di ordine jonico.
Ora, se il de Dominici (3), che uno scrittore di storia
pittorica esalta come pittore diligente e minuto, sul far
dei Fiamminghi, in pittar bambocciate (4), avesse voluto
egualmente essere storico coscienzioso ed esatto, avrebbe
dovuto, prima d’inventar favole, rintracciare, vedere, stu-
diare coi proprii occhi quello che per vero ha sommini-
strato a dotti ed indotti dal 1742 a questa parte.
Egli — nel caso — invece d’inventar Masuccio, che
col suo genio incanta Michelangelo, e gl’insegna le famose
modificazioni del pilastro jonico, le quali poi furono fatte
dall’ ignoto architettore del 1600, che, a sua volta, le im-
parò da Michelangelo e le pose in pratica; se egli si fosse
degnato, come prima il Faraglia e dopo io, di salire i 192
gradi della scala a chiocciola del campanile in quistione,
avrebbe coi propri occhi veduto che « a mezzo il davan-
« zale dei finestroni si veggono le basi rotte delle colon-
« ne, che evidentemente partivano il vano bifore »; che
« ai quattro lati sono quattro colonne eguali, alte, sottili, ir-
« regolarmente spezzate all’altezza delle imposte ». Avrebbe
pur veduto che « esse certo da prima si prolungavano' a
« cordone nel giro della vòlta gotica a crociera e si ranno-
« davano nel centro »; e come intendente di arte avrebbe
capito che « questa disposizione delle colonne interne, an-

(1) Banchieri antichi, voi. 121, nell’Archivio di Stato. Questo volu-
me nella prima pagina non ha il nome del Banco, a cui apparteneva,
ma posso quasi certamente affermare che apparteneva al Banco Mari;
mi è troppo nota la calligrafia del cassiere di questo Banco, per averla
letta in molti altri volumi dello stesso.
(2) Banchieri antichi, ecc., voi. 148.
(3) De Dominici Ber., Vite dei pittori, ecc., voi. I, p. 107 ss., Na-
poli, 1840.
(4) Lanzi, Storia pittorica, ed. Silvestri, voi. II, p. 396.

« golari, ed il loro sviluppo sono cosa ordinaria negli edi-
« fici di stile gotico » ('), e si sarebbe avveduto che la
primiera costruzione del campanile non era stata quella
eh’ egli vedeva e dava per opera di un immaginario Ma-
succio del quale, per poco, non ci narra pure quante pal-
mate sulle manine grassocce gl’inflisse, quando non vo-
leva studiare, il pedagògo.
E lasciamolo per ora in pace.
Il campanile ha cinque campane (2), proprio quante, co-
me si legge nel Giornale del duca di Moni elione (3), ne fece
fondere il re Roberto, e « porre su certi pilieri » abben-
chè ai tempi del Summonte ve ne erano due « con l’iscri-
zione del 1326 » (4).
Quando le attuali cinque campane suonano, le prime
due fanno' l’accordo, andando le due altre maggiori a di-
stesa, e la più piccola a rintocchi; e quando la scampa-
nata termina le ultime due di tono più alto battono an-
cora a rintocchi e chiudono l’accordo.
La campana maggiore (5) situata nel mezzo della galleria
è sostenuta da un robustissimo castelletto di quercia, tiene
da ambo i lati del ceppo un braccio di leva, sicché vien
messa ili moto da due parti. A ciascun braccio di leva
sono attaccate tre corde, non torte, ma fatte a treccia, e
ognuna è tenuta da un uomo; di guisa che sono sei per-
sone, che suonano le campane, tre e tre, le une di con-
tro alle altre. Queste si fanno passare la corda nella de-
stra mano e le danno due o tre giri attorno al braccio;
cosicché, nel caso, che la campana, spinta dalla soverchia
forza, invece di fermarsi in bilico in alto, per ricadere
dalla stessa parte, donde è salita, compisse tutto il giro,
le sei persone ad un tempo aprono la mano, e così le
corde svolgendosi dalle rispettive braccia, fuggono appresso
alla campana. Che se altrimenti facessero, sarebbero por-
tate in alto ed uccise sotto la vòlta, o gettate giù da qual-
cuno dei finestroni (6).
Quando le campane suonano, chi si trova nella galleria
sente la paura che produce sui sensi una scossa continuata

(1) V. Memorie degli artisti napoletani, studio critico di N. F. Fa-
raglia ne\V Archivio storico napoletano, anno VII, 1882.
(2) Malgrado il pericolo a cui mi sono esposto, non ho potuto leg-
gere le iscrizioni che portano incise in alto. A grande stento ho rile-
vato che la campana di mezzo fu opus Petri lordano (1699) ed in una
delle facce ha il motto: Gius ut Deus. La seconda porta la data del-
l’anno 1690. La terza è: Opus Prigipy de Amore Regy fonditori* Neap.
La quarta è: Opus Martini Megenini Veneti. La quinta del 1604 è: Opus
Innocentii jordani.
(3) Giornale dell’istorie del regno di Napoli, ecc., t. II della raccolta
Gravier, p. 8.
(4) Summonte, l. c.
(5) Pesa 28 cantala; il solo batocchio da sè solo, un cantaio e 14
rotola. Un giorno cadde e si vede ancor forata la volta sottostante.
(6) Queste cose me l’ha dette il mio amico Michele Capaldo,
buon poeta dialettale della scuola antica, e amante e conoscitore di
tutti gli usi e costumi patrii.
 
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